Non era voluto, posso assicurarvelo. Il blackout che lo scorso 13 settembre, nel bel mezzo del panel “Concentrati o connessi?” della Social Media Week di Roma, ha lasciato al buio tutto il quartiere (insieme a noi in sala!) non era un bieco trucco della moderatrice (ehm, la sottoscritta) per garantirsi l’attenzione del pubblico.
Alla #SMWRME si rimane attenti anche con #blackout della luce! 😂💪 Forza relatori
Panel #attenzione @pliberace @FlaviaRubino666 pic.twitter.com/qqNosY0QMb— YourBrandCamp (@YourBrandCamp) 13 settembre 2017
Allo stesso modo, la concomitanza tra il nostro panel e le dichiarazioni del ministro dell’istruzione Valeria Fedeli, che ha aperto all’utilizzo dello smartphone a scuola come “utile strumento di apprendimento” (con tanto di successiva smentita), non era un abile escamotage dell’organizzazione per lanciare uno degli argomenti più spinosi affrontati durante il dibattito: l’influenza dei social media sui più giovani, sulla loro capacità di concentrazione, di studio e di critica. A sostenere che esista un problema legato all’utilizzo della Rete da parte dei ragazzi è stato Alberto Contri, collegato all’evento tramite Skype – e quindi vittima del suddetto blackout, che prima di sparire dal maxischermo ha lanciato il proprio allarme sull’overload informativo.
Esiste un problema di concentrazione per i ragazzi👉 vero, parliamone! Grazie @AlbertoContri 😉#SMWRME #socialmedia #attenzione pic.twitter.com/ZHyMkkjdw2
— Aurelia Tirelli (@aureliatirelli) 13 settembre 2017
Di parere contrario Felicia Pelagalli, che ha invece ribadito la necessità di cambiare prospettiva, anche sull’apprendimento, aprendo alla possibilità che ciò che ci appare come perenne distrazione dei ragazzi celi un cambiamento antropologico, di certo, ma non necessariamente negativo. Felicia è tra i soci fondatori di Ottimisti&Razionali, neonata fondazione che si propone di “contrastare il divario tra la realtà e la sua rappresentazione”: un divario che si percepisce nettamente se si guarda alla stigmatizzazione che ogni epoca fa di se stessa, e di converso all’esaltazione che fa dell’epoca precedente, o di quelle ancora più remote.
Se si parla di tecnologia questo fenomeno diventa ancora più evidente: la condanna senza quartiere della “cattiva maestra televisione” (chi frequenta queste pagine sa bene quanto poco la si condivida) ha lasciato il posto, una generazione più tardi, alla condanna altrettanto senza quartiere di Internet e dei dispositivi connessi, smartphone in prima fila. La voce degli “apocalittici” risuona particolarmente forte quando si tratta di paventare le spaventose conseguenze delle tecnologie sulle nuove generazioni: ma si tratta solo di una fattispecie particolare di una sfiducia più ampia, di una paura più generale: quella del nuovo, del poco noto, dell’oscuro.
E invece ciò che dovremmo temere di più, come già dicevamo, è la nostra paura; che ci impedisce di usare la testa, di aprirci alla curiosità, all’esplorazione, alla scoperta, all’innovazione. Ci impedisce di raccogliere informazioni, analizzarle, formarci un’opinione della quale saremo pienamente responsabili, perché libera e consapevole. Ci impedisce di gettare una luce su ciò che non ci è chiaro, e che non sappiamo quale minaccia (o quale opportunità!) possa nascondere. Non è Internet, come non era la TV ieri (e la radio o il cinema l’altroieri, e così via), a tenere sotto scacco la nostra mente: siamo noi stessi a potere – e dovere – scegliere di usarla al meglio, raccogliendo informazioni sul reale con tutti gli strumenti che abbiamo – analogici o digitali che siano -; e analizzando il reale com’è – e non come temiamo che possa mai essere.
Se tra questi strumenti sia possibile comprendere anche gli smartphone, specialmente per i più giovani, anche a scopo didattico, si può discutere; si può notare che prima che ai telefoni bisognasse provvedere alla banda larga e alla dotazione di PC in tutte le scuole, come ha detto Riccardo Luna; o si può sostenere che in un’ottica nuova, di moltiplicazione dei linguaggi, contrapporre libro e schermo non abbia senso, come ha fatto Franco Lorenzoni. Quello che invece non si può fare è liquidare la questione in nome della necessità di protezione, di difesa, di tutela da parte di terzi a cui affidarci, perché noi non ci fidiamo – dei nostri figli, della nostra capacità di insegnare loro a pensare, a giudicare, a orientarsi. Non si può limitarsi a vietare, invocare l’intervento dell’insegnante, deplorare il tempo corrotto che travia la gioventù, maledire la tecnologia che li distrae, che li ipnotizza – e poi magari che ci impoverisce, che ci ruba il lavoro, e così via. Di questi ulteriori aspetti riparleremo presto: ma ora devo andare, è l’ora di ritirare lo smartphone a mia figlia, che deve fare i compiti.